Quando, per la prima volta, si cominciò a parlare del disseccamento di centinaia e centinaia di piante di ulivo ad opera del batterio “xylella fastidiosa”, pensai che fosse un caso sporadico e circoscritto ad una zona limitata della Puglia.

Purtroppo, però, dopo poco tempo la stessa tragica sorte è toccata, ad opera del punteruolo rosso, alle palme delle Canarie che, infettatesi in poco tempo, hanno dispogliato aree verdi e giardini privati, talvolta anche storici, della eleganza torreggiante delle loro chiome esplosive dai rami arcuati.

Il successivo sterminio dei pini marittimi, decimati a loro volta dalla cocciniglia tartaruga, ha poi dato il colpo di grazia finale all’aspetto del territorio campano, così indissolubilmente legato a questa specie arborea sin dall’antichità, quando Plinio il giovane, nel descrivere la colonna piroclastica sollevatasi in seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., la paragona, quanto alla forma, proprio a quest’albero.

Su tale aspetto distruttivo della Natura ho iniziato a riflettere proprio a seguito dei menzionati stravolgimenti del mondo vegetale; mi sono interrogato sulle cause prime di tali eventi, imputate dai media al fenomeno della globalizzazione, che ha comportato la repentina diffusione degli agenti infestanti alla velocità dei traffici commerciali.

Non immaginavo che, dopo non molto tempo, anche noi “umani” avremmo sperimentato le atrocità di un agente patogeno che ancora flagella il mondo intero, in una sorte di comune sofferenza che ci unisce ai nostri amici alberi.

Proprio noi che, confortati dall’idea rassicurante del progresso della scienza e della tecnica, abbiamo visto, d’un colpo, svanire l’immagine che ci eravamo costruiti delle nostre “magnifiche sorti e progressive”.

Nei momenti iniziali della pandemia, di certo i più devastanti psicologicamente, per la sensazione di smarrimento e impotenza di fronte all’avanzare di un nemico invisibile e ignoto, altro non abbiamo potuto fare che interrompere i contatti sociali e guardare al passato, ai nostri predecessori, che si sono trovati a fronteggiare esperienze simili, al fine di cercare qualche risposta in termini di durata e modalità di evoluzione dell’emergenza sanitaria.

In soccorso ci è venuta la preziosa testimonianza della letteratura di ogni epoca, che ha visto i successivi eventi pandemici fare da protagonisti, o solo da sfondo, ai racconti dei vari autori: così nella peste di Atene descritta da Tucidide a fini storiografici o nella trattazione scientifica che ne fa Lucrezio, nelle pestilenze dell’era moderna, descritte da Boccaccio nelle cento novelle, o dal Manzoni con scopi rivendicativi di ideali patriottici.

Tra i menzionati testi sicuramente il “Decameron” è quello più vicino alla nostra sensibilità green di abitanti del XXI secolo, non solo per il realismo che lo caratterizza, ma anche e soprattutto per il potere esorcizzante dei racconti rocamboleschi e talvolta licenziosi dei giovani protagonisti, rifugiatisi in aperta campagna per sfuggire alla peste nera del 1348.

Del romanzo ho ricordato, in un repentino flashback, la suggestiva trasposizione cinematografica, per la regia di Pier Paolo Pasolini, che ha visto diverse scene girate nel nostro territorio e, più precisamente, ambientate nel borgo di Caserta Vecchia.

Così, in una delle serate trascorse in lockdown, suggestionato da tali reminiscenze e dalla consapevolezza di trovarmi a vivere una situazione analoga, ho deciso di rivedere il “Decameron” riscoprendo angoli nuovi, meno noti ma di certo non meno suggestivi, del mio territorio.

La novella “Caterina e l’usignolo” è stata, infatti, ambientata dal regista nel piccolo borgo di Piedimonte di Casolla, nel giardino dell’antico palazzo Cocozza di Montanara (oggi di proprietà del dottor Pietro Paolo Scalzone).

Sorto verso la metà del XV secolo in posizione pedemontana – all’epoca in cui anche i vescovi dell’antica Caserta ritennero sicuro stabilire la loro residenza nella sottostante pianura, ormai priva di pericoli – il palazzo, che si erge su tre livelli, presenta una pianta ad U e una corte centrale.

La facciata principale, posta dinanzi alla cappella pertinenziale dedicata a San Rocco, è caratterizzata da un alternarsi di finestre rifinite in piperno, talune di gusto neo-catalano, con una torre nella parte sinistra e un portale, anch’esso in piperno, coronato dallo stemma della famiglia di cui porta il nome.

Una scala settecentesca conduce al piano nobile, completamente rifatto tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Oltrepassata la corte, attraverso un portale – sempre in piperno – sormontato da una merlatura in tufo grigio, si accede al meraviglioso giardino.

Qui, ci accoglie un antico roseto della varietà nota come “De Ronsard” (in ricordo del poeta francese del XVI secolo, amante e cultore di rose e giardini), che conduce ad un viale di melograni, nascosto allo sguardo da una cortina di alloro.

In una sinfonia di aranci, lecci, palme delle canarie, cedri, pini e mille varietà di fiori trovano spazio diversi pregevoli manufatti in tufo, tra i quali spicca un antico tempietto a tholos.

Questa la cortina fascinosa in cui il colto e raffinato regista è riuscito a ricreare quell’amalgama tra la società medievale aristocratica, animata dall’amor cortese, e la nuova emergente società dei mercanti, astuta, scaltra e intraprendente, entrambe funestate dall’imperversare della peste.

Rivisitando questi luoghi, mi assale la consapevolezza di quanto il corso della storia proceda attraverso il dispiegarsi di avvenimenti di tipo ciclico, di fronte ai quali l’uomo non ha altre armi che il proprio bagaglio pregresso di esperienza e l’innata capacità di reagire…

Massimo Luigi Cesare