Questa sezione raccoglie (in ordine alfabetico) i contributi del Comitato Scientifico e Tecnico del Concorso, preceduti dalla riflessione di Marianna Mastropietro, cittadina di San Giacomo dei Capri, da anni impegnata a sensibilizzare gli amministratori pubblici, gli addetti ai lavori ed i cittadini sul desiderio di un giardino per tutti al posto di un ponte abbandonato e degradato per nessuno.

Una fiaba senza più mostri

Marianna, cittadina di via San Giacomo dei Capri

da sinistra: Grazia Torre, Marianna Mastropietro, Benedetta de Falco

Era il 1985, avevo 6 anni, e dal balcone di casa vedevo i campetti da tennis frequentati dalle persone del quartiere. Un giorno sono arrivate le ruspe e hanno iniziato a demolire. Poco dopo sono arrivati i rumori e hanno iniziato a costruire. Da quel momento in poi c’è stato solo cemento. Al posto dei campetti ha preso forma un’enorme sopraelevata che non sarebbe mai stata terminata, schiacciata tra i palazzi, senza capo né coda.

I campetti della mia infanzia non c’erano più, era nato un mostro.

Il 20 aprile 2020, 35 anni dopo, mi sono affacciata allo stesso balcone e ho guardato quel mostro. L’ho guardato tutti i giorni tutto il giorno dall’alto. Eravamo in pieno lockdown e non si poteva uscire. Allora mi sono ricordata di quando ero bambina e mi sono detta: io ho un sogno, voglio che questo mostro diventi un giardino. Guardavo l’opera incompiuta immaginando e sognando uno spazio verde per un quartiere figlio della speculazione edilizia, senza parchi né giardini, dove per fare due passi devi solo cambiare quartiere.

Così un giorno ho iniziato a raccontare questa storia in rete, sui social, connettendomi alle persone del quartiere, coinvolgendole e condividendo la mia e altre idee sul mostro dimenticato finché una sera non mi ha scritto Fabio. Anche lui, come me, guardava il mostro dal balcone e come me oggi ha un sogno e, come noi, tutto il quartiere ha un sogno: dimenticare la brutta storia del mostro e avere finalmente uno spazio verde per incontrarci. Oggi sono emozionata perché attraverso la rete e il ‘fare rete’ abbiamo incontrato l’Associazione Premio GreenCare che ci ha condotti fino all’idea di un concorso internazionale con l’Associazione Napoli Creativa. Ed oggi siamo qui, per iniziare una nuova e bella storia, anzi una fiaba senza più mostri.

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La convivialità urbana nasce dall’ascolto dei cittadini

Caterina Arcidiacono*

La città vive attraverso i suoi abitanti e i territori urbani sono parte della vita delle persone. I legami con i territori di appartenenza sono costitutivi della identità dei luoghi e di quella delle persone. I cittadini e le cittadine appartengono ai territori che abitano, infatti, come diceva Sant’Agostino, “sono gli uomini e non le pietre che fanno le città”.

La psicologia di comunità, come disciplina attenta ai legami con i contesti di vita, sostiene gli abitanti nei loro legami con i luoghi di vita e con le storie che ne costituiscono la memoria. Offre strumenti per leggere la città, le sue memorie e i suoi desideri. Propone metodologie di co-creation per favorire processi partecipati di aggregazione sociale. Si tratta infatti di un segmento della psicologia volto alla ricerca del benessere nella interazione individuo /ambiente, consapevole che solo il legame degli abitanti con i luoghi permette il recupero di convivialità sociale e relazionalità condivisa. Solo il comprendere ciò che anima i luoghi e le persone che li abitano permette di promuoverne la vivibilità.

In questa cornice la storia di San Giacomo dei Capri e del suo ponte irrealizzato si inscrive come uno stimolo al recupero di un territorio abbandonato. Il ponte mancato è frattura silente nella storia del Vomero Alto che tace muta tra fabbricati irrelati e silenziosi.

Le donne e gli uomini del quartiere si interrogano pertanto impotenti sulle potenzialità di questo spazio muto che si pone sospeso tra le case.

Un processo aggregativo dal basso vuole porre alla attenzione della intera città le possibili sorti di un’azione incompiuta che langue nella indifferenza collettiva. Cosa fare? Come promuovere nuova vitalità urbana? Quali potenzialità possono essere attivate? Quali bisogni possono trovare risposta? A Roma, al Flaminio per la riqualificazione del quartiere, è stato costruito il ponte della musica, destinandolo a uso pedonale e all’intrattenimento sportivo, attraverso gli skateboard.

Esistono possibili prefigurazioni d’uso del ponte di san Giacomo dei Capri? Gli abitanti della zona si muovono in un processo dal basso per sensibilizzare la città a una nuova vivibilità urbana, ad un uso del territorio che ne decongestioni gli accessi o alla possibilità di usufruire di una zona verde. Quale il destino dell’intera area? Questi interrogativi per lo sviluppo del quartiere uniscono gli abitanti in un processo collettivo di mobilitazione istituzionale. Quali strade intraprendere? Quali alleati? Quali vision? Quali azioni? E’ un disegno in cui credere, un futuro da costruire per il bene del Vomero Alto e della intera vivibilità urbana. Un’azione da sottoporre all’attenzione delle istituzioni locali e regionali per trovare rinnovate energie ad una destinazione d’uso condivisa e partecipata.

*professora di Psicologia di comunità dell’Università degli Studi di Napoli Federico II; è psicologa -analista junghiana e autrice di “Napoli: diagnosi di una città” (Magma edizioni 1999), e “Psicologia per le città” (Liguori 2017)

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L’elogio del “non finito”

Francesca Brancaccio *

Pendent opera interrupta

Eneide (4. 86-89)

Alla voce “incompiuto” nel Dizionario Treccani si legge: “agg. [comp. di in-2 e compiuto]. – Non compiuto, che non è stato portato a termine: opera i.; costruzione i.; il lavoro è rimasto incompiuto. Sinfonia i. (e più comunem. l’Incompiuta), titolo con cui è nota l’8a sinfonia in si minore (1822) di F. Schubert, di cui si eseguono solo i primi due tempi, in quanto lo Scherzo è stato solo abbozzato e manca il finale”. I due movimenti della sinfonia citata, è noto, sono ritenuti dagli addetti ai lavori assolutamente perfetti, autonomi e completi, perché trasmettono – da soli – compiutamente il pensiero di Schubert. Sono ancora incompiute opere come l’Adorazione dei Magi degli Uffizi, recentemente restaurato, che permette di intravedere la trama del dipinto tracciata direttamente sulla tavola da Leonardo senza ricorrere a taccuini preparatori, o ancora il ritratto di George Washington di Gilbert Stuart, che appare oggi sul dollaro, modello per i ritratti successivi, e oggi icona dell’arte americana. Non finite sono anche opere note come il Requiem in re minore K626 di Mozart, o il romanzo Il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, incompiute per la morte degli autori, o abbandonate o respinte come il David/Apollo di Michelangelo al Bargello, spesso vasarianamente interpretato come manifestazione della licenza dello scultore e della sua libertà creativa o il Ria Munk III di Klimt.

Tante, nello specifico dell’architettura, sono le opere incompiute nel corso della storia[1]. Dalla costruzione del Partenone interrotta o drasticamente ridotta in esito all’emanazione dei Decreti di Callia del 434/433, alle questioni contingenti che portano ai non finiti di San Lorenzo, della facciata di santa Maria del Fiore nell’architettura rinascimentale fiorentina, o ancora alle progressive riduzioni del programma del Real Albergo dei Poveri in Napoli di Ferdinando Fuga, che – come già scriveva Luigi Vanvitelli al fratello – durante il regno di Carlo III veniva mortificato rispetto all’ambizioso originario programma pur ritratto dal Duca di Noja, per mai essere – di fatto – terminato. E tanto si potrebbe scrivere sulle effettive motivazioni del suo stato di incompiutezza, protrattosi poi nei secoli, e che segna ancora oggi il destino di quest’opera finanche nelle recenti attività di recupero, consolidamento e riconfigurazione architettonica, non ancora portate a compimento dal Comune di Napoli, oggi proprietario del bene. Allo stesso destino andò incontro nell’Ottocento il revival “all’antica”’ neo-greco sul promontorio di Calton Hill, in Gran Bretagna, con l’intenzione di trasformare Edimburgo nell’Atene del nord ad opera di Charles Robert Cockerell, modellandola sul Partenone ed interrotta per l’insufficienza di fondi. Il progetto della Sagrada Familia, a Barcellona, uno dei più antichi della storia moderna, iniziata nel 1882, continuato dagli assistenti di Gaudí, proseguita nel XX secolo, è oggi una delle principali attrazioni turistiche, proprio grazie al mancato completamento.

[1] Per il mondo greco e romano cfr. Massimo Papini, a cura di, Opus Imperfectum. Monumenti e testi incompiuti del mondo greco e romano, Sapienza Università di Roma 14-15 marzo 2019

Incompiuto, non-finito, ma anche non rifinito, abbozzato, interrotto, sinonimi con differenti sfumature per opere, monumenti o testi (atele-s, he-mitele-s, he-miergos, inchoatus, imperfectus, rudis, interruptus), molteplici sono le declinazioni e le ragioni dell’incompiutezza di tessuti storici, ed anche le crisi odierne hanno generato non finiti e conseguenti rovine del contemporaneo. A partire dal 2006, allorquando Gabriele Basilico fu invitato dal collettivo Alterazioni Video a Giarre (Catania) per fotografare le opere incompiute della città, immagini poi pubblicate sulla rivista Abitare, le opere pubbliche incompiute – dimenticate ed abbandonate – diventano oggetto di interesse; si comincia a definire uno stile del nostro paesaggio “Incompiuto” (“Incompiuto – La nascita di uno Stile – the Birth of a Style, Humboldt Books in collaborazione con Fosbury Architecture”), promuovendolo, attraverso lo studio e la catalogazione, quale paradigma interpretativo dell’architettura italiana dal secondo dopoguerra ad oggi. Sono oltre 690 le opere pubbliche non finite disseminate sul territorio italiano mappate in circa 10 anni da questo collettivo, con la finalità di ribaltare la prospettiva e cercare possibili valorizzazioni oggetto di un osservatorio nazionale e di studi, ricerche, piani di fattibilità e progetti: «le opere pubbliche incompiute sono un patrimonio artistico-culturale e in quanto tale divengono possibili promotori di un’economia locale al pari di altri siti storici del nostro territorio». L’incompiuto diventa quindi occasione per attivare processi per nuovi progetti con potenziali ad oggi inespressi, aperti, innovativi, sondando possibilità e circostanze da valutare, con senso critico, per apprezzare ciò che è abbandonato e capire quale valore trarne, per comprendere come agire quali scelte operare.

Nel 2019 il centro studi Fondazione Ergo pubblicava il quaderno di approfondimento n.6 dal titolo L’Italia In-compiuta. Un’analisi economica delle opere pubbliche, con lo scopo di raccogliere gli esiti della analisi quantitativa ed economica delle opere incompiute in Italia al fine di rispondere ad una serie di domande: come evolve la situazione nel tempo? Dove si concentra la maggior parte di opere incompiute? Quante risorse economiche sono state impegnate? Quale politica si sta adottando per arginare il problema? Perché è importante che una Pubblica Amministrazione sia efficiente? Lo studio registra che – sulle 546 opere incompiute per un valore complessivo nel 2018 di oltre 4 miliardi – dal lato della distribuzione geografica, la maggiore concentrazione si riscontra nel Mezzogiorno, con Sicilia (154 opere), Sardegna (80) e Puglia (41) in cima alla graduatoria; al Nord, invece, al primo posto c’è la Lombardia (26). Il 60% delle opere – inoltre – riguarda il settore sociale, il 17% infrastrutture di trasporto e un 12% infrastrutture ambientali. In base alla categoria, le principali opere riguardano strade (68) e impianti sportivi (61), seguite da opere di edilizia scolastica (43), residenziale urbana (40) e sociale (19).

A tutto il 2021, in Italia, tante grandi infrastrutture sono fra le principali incompiute: opere per le quali sono stati stanziati ingenti finanziamenti, definiti progetti a vari livelli di dettaglio, appaltate e iniziati i lavori, ma che poi, per vari motivi, procedono a rilento, si bloccano o si fermano. Autostrade, superstrade, porti, dighe, ferrovie, ponti, tunnel, musei, carceri, mercati, stazioni, tribunali, ex colonie abbandonate: il campionario è vario e comprende non solo opere pubbliche ma anche iniziative private. In alcuni casi falliscono le imprese, in altri finiscono i fondi, sono fermate da ricorsi di altre imprese, da imprevisti tecnici, da riserve, da inchieste giudiziarie, da violazioni normative. L’opera forse più famosa è l’A12, l’Autostrada Tirrenica, che avrebbe dovuto collegare Genova con Roma e che aspetta di essere completata da decenni: ad oggi manca una tratta di circa 180 km, quella centrale tra la Toscana e il Lazio. In Toscana si attende il completamento, previsto per il 2026, della Fano-Grosseto, in Lombardia la Pedemontana Lombarda, fra Bergamo e Varese, si prevede sia completata nel 2030, in Piemonte la storia della A33 Asti-Cuneo dura da 30 anni, fra Umbria e Marche, la Perugia-Ancona a causa del fallimento delle imprese, lascia fornitrici e sub-appaltatrici del territorio a riscuotere crediti. Poi, in Sardegna l’ex arsenale alla Maddalena, non ha mai decollato dopo il blocco del G8, poi dirottato a L’Aquila, a Reggio Calabria il palazzo di giustizia è fermo, fra ritardi, contenziosi, rescissioni contrattuali ed altre vicissitudini, nel comune di Gimigliano (Catanzaro), la diga sul fiume Melito, ha ad oggi assorbito oltre 180 milioni di euro e, per terminarla ne occorrerebbero circa 550.

Lo studio concludeva con direttive di policy atte a scongiurare o ridurre il fenomeno:

1) Intervenire ex ante per prevenire che le opere rimangano incompiute con un monitoraggio (AINOP – Archivio Informatico Nazionale delle Opere Pubbliche) al fine di analizzare i dati e intervenire tempestivamente;

2) Intervenire ex post, con un accordo MIT-MIBAC con l’obiettivo di recuperare le opere incompiute destinandole ad usi alternativi o ridimensionati;

3) Adeguare le normative. Il Decreto Sblocca Cantieri ne è un esempio;

4) Agire sulla contrazione dei tempi di attuazione;

5) Agire sui ritardi nei pagamenti della PA che incide negativamente sulla competitività delle imprese;

6) Ridurre il numero delle impugnazioni;

7) Migliorare la capacità di uso e spesa di fondi strutturali europei.

In riferimento al punto 2, recuperare le opere incompiute destinandole a usi alternativi o ridimensionati, è impossibile non constatare come il tema del non finito resti un tema suggestivo, molto avvertito anche negli studi e nelle ricerche di architettura in ambito internazionale, perché rappresentativo delle condizioni di precarietà del nostro secolo, di una estetica del degrado e del recupero, che, secondo questa visione critica, offre un grande potenziale di trasformabilità. La propensione, inoltre, a conservare nell’architettura sottratta all’incompiutezza ed ai conseguenti stati di abbandono e degrado, ampie tracce del passato, mantenendo nell’intervento di recupero le finiture ad un livello grezzo, spesso evoca un atteggiamento prossimo all’approccio proprio dell’archeologia. I risultati di queste operazioni possono condurre a straordinarie integrazioni tra storia e progetto, sia in riferimento al singolo oggetto che nei confronti della scala urbana.

La attenzione del professionista deve essere massima, concentrandosi sulle cause del non finito proprie all’oggetto di studio, perché historia magistra, e impegnandosi a fondo sulla fattibilità dell’intervento di recupero proposto. Non basta infatti l’adozione di comodi escamotage narrativi: non tutte le storie di recupero, pur avviate, sono infatti storie di successo: si pensi alla città di Roma, teatro di famosi incompiuti “contemporanei” (Corviale, Torri di Beirut, città dello sport, Maxxi), ed al caso del Viadotto dei presidenti, opera degli anni ’90, prevista come asse di collegamento tra Roma nord e Roma sud attraverso una ferrovia leggera, rimasta incompiuta e “non-luogo” nascosto dal traffico quotidiano: anche la nuova iniziativa di rigenerazione urbana e riappropriazione “sotto il viadotto” – sostenuta da Roma Capitale e ideata dal gruppo G124 – con arredi green, piazza temporanea per incontri e manifestazioni, promozione di cultura e socializzazione tra gli abitanti, è stata presto abbandonata e le aree sono tornate allo stato di degrado. Non si vuole qui elogiare tendenze raw style, ormai insopportabili trend commerciali nell’allestimento di locali per la vendita e la ristorazione, usurato, e progettato per fingere e suggerire esperienza di consumo “autentiche”, scimmiottando storia e passato nostalgico, e mescolando arrugginito e polveroso, luci soffuse e studiate atmosfere di decadenza. Si intende invece promuovere ricerche coerenti e originali, che consentano di riconoscere che l’imperfezione attrae ed emoziona, perché corrisponde in fondo alla condizione che ci è propria, oltre a essere uno strumento che può avvicinare all’arte e al design, ambiti che il non finito riesce a coinvolgere più in profondità e a rendere vicini al mondo reale.

*docente di Restauro, Università degli Studi di Napoli Federico II

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Il Ponte del possibile 

Fabrizio Cembalo Sambiase*

Di cattedrali nel deserto, di errori urbanistici e progettuali, di inizi senza una fine, la nostra città ne è piena. Alcuni hanno avuto nel lunghissimo periodo un buon esito, altri restano lì come testimonianza di una azione senza un perché. Interrogativo che porta il cittadino a sottolineare ancor di più la scarsa attenzione al territorio delle opere pubbliche che altro non sono che un segno nero su di un foglio bianco. Foglio bianco spesso scritto con inchiostro simpatico e che basterebbe poco per rendere visibile e che permetterebbe di intervenire con maggiore attenzione sul territorio. Interrogativo che, dal punto di vista pubblico, testimonia la difficolta degli interventi pubblici nel mare magnum di leggi e norme che non riescono a conciliare l’aspetto di interesse generale con gli interessi privati.

Il ponte, un vincolo da trasformare in opportunità, quindi, un’area in cui, parafrasando il libro di Rodari “il libro degli errori” in “il ponte degli errori” si può giocare con gli errori, per imparare, per creare una “magnifica grammatica della fantasia”, una magnifica declinazione dei progetti.

Qui si collega il secondo filone del concetto di ponte, inteso come elemento di congiunzione e di unione di solidarietà che spesso, a causa di becere motivazioni, si spezza.

Un ponte, questo, non terminato ma che lascia libero spazio alla fantasia: un non finito che diventa infinito di meraviglie e progetti. Lo spazio verde, attualmente presente e che lo circonda, può diventare un’affascinante sciarpa forestale che avvolge un “chiaria” in cui tutto è possibile.

L’obiettivo è quello di costruire un’area in cui il Genius loci (ponte) venga declinato nelle sue diverse forme, in modo da trasformare un’area grigia e respingente in un luogo dell’accoglienza. Un parco in cui gli abitanti del luogo, e non solo, possano usufruire di uno spazio verde gestito e pensato con loro, per loro.

Lo stesso ponte si trasforma in luogo immaginario dal quale spiccare il volo verso l’orizzonte dove ci si può perdere con il suo punto panoramico rivolto verso Nisida e verso l’infinito, accompagnato dai due nastri di asfalto della tangenziale sottostante.

Il progetto non si deve fermare al solo ponte ma deve prendere in considerazione anche la restante parte di superficie a verde presente nell’area – poco meno di 5000 mq – in modo da generare una connessione tra i vari sistemi e il suolo sottostante.

I Temi progettuali principali sono:

Connessioni

Socialità

Verde urbano

Forestazione urbana

Climate change

Educazione

Gioco

Fantasia

Sogno

*Presidente della Sezione Campania Basilicata Calabria dell’Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio

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Una grande sfida di impatto ambientale

Claudia Colosimo*

L’incremento delle aree verdi urbane è oggi un obiettivo di politica locale non trascurabile.

Un’area verde è uno strumento per migliorare non solo la qualità di vita dei cittadini ma migliorare anche il contesto urbano in cui si inserisce, con ricadute sociali ed economiche.

Alle infrastrutture verdi è dedicata anche una linea di intervento del PNRR (piano nazionale di ripresa e resilienza) che ha l’obiettivo di “salvaguardare la qualità dell’aria e la biodiversità del territorio attraverso la tutela delle aree verdi, del suolo e delle aree marine” con il piano di forestazione con obiettivi specifici quali:

  • preservare e valorizzare la biodiversità diffusa in linea con la strategia europea per la biodiversità;
  • contribuire alla riduzione dell’inquinamento atmosferico nelle aree metropolitane;
  • contribuire alla riduzione del numero delle procedure di infrazione in materia di qualità dell’aria;
  • recuperare i paesaggi antropici e migliorare le aree protette presenti nelle immediate vicinanze delle aree metropolitane;
  • arginare il consumo di suolo e ripristinare i suoli utili.

Il ponte di San Giacomo dei Capri, rappresenta un’opera ingegneristica incompiuta che può trasformarsi in un’infrastruttura verde modificando anche lo skyline di un’area della città di Napoli densamente abitata, il cui impatto visivo oggi, è tutt’altro che green. Nelle vicinanze non ci sono inoltre molte aree verdi accessibili per la popolazione residente in quell’area e quindi l’idea di recuperare tale infrastruttura ha un valore aggiunto notevole.

Il progetto dovrà prestare particolare attenzione:

  1. alle caratteristiche in termini di impatto ambientale (conformemente al D.M. 17/10/17) dei materiali impiegati sia per gli elementi strutturali che per quelli di decoro;
  2. all’impiego di risorse materiali non rinnovabili e massimo riutilizzo di risorse naturali impegnate;
  3. al risparmio energetico degli impianti tecnici necessari alla fruibilità dell’area (illuminazione a led, colonnine per la ricarica elettrica dei veicoli, …);
  4. all’integrazione delle fonti energetiche rinnovabili (piccole aree coperte con pannelli in vetro con fotovoltaico integrato, ecc.);
  5. al recupero delle acque meteoriche a scopo irriguo;
  6. alla gestione dei rifiuti legata all’utilizzo dell’area ma anche agli sfalci di potatura periodica;
  7. alla manutenzione e durabilità dei materiali e dei componenti;
  8. alla fruibilità dello spazio da parte di cittadini di ogni età e genere;
  9. alla diversificazione d’uso degli spazi: aree gioco, orti didattici, aree sportive, ecc..

* consigliere dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Napoli

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Un ponte verde verso il futuro

Francesco Escalona*

Il mio contributo vuole concentrarsi su alcune valutazioni che tentano di riflettere sul tema urbano posto con particolare riferimento al suo significato, qui ed ora.

Mai come in questo caso si può parlare di un confronto con un vero e proprio “relitto urbano”. Un oggetto residuale di un’era passata. Per sempre, ci auguriamo.

Un oggetto non finito del quale è difficile, forse impossibile, ricostruire le ragioni e sul quale, forse, non è neanche così interessante indagare. Ci basti dire che ha contribuito in questi decenni a caratterizzare uno dei più assurdi “non luoghi” della città. Un relitto arrivato lì attraverso chissà quali percorsi tecnico amministrativi; una bottiglia caduta nel mare magnum delle procedure e delle vicende tecnico- burocratiche, nell’oceano del non pianificato e del non programmato. Un relitto giunto fino a noi per rappresentare tutto quello che non dovremo più fare. Disceso tra noi da un’era nella quale l’automobile era la grande dominatrice, il grande mito e tutto doveva esserle assecondato.

Lo stesso tema del quartiere del Vomero Alto (che per inciso, fu argomento della mia tesi di laurea, seguita all’inizio degli anni ‘80 dal colto e sensibile Agostino Renna e a cui lavorai con Mario Losasso, Antonio Dinetti e Nicola Cotugno), area irrisolta da indagare con l’architettura.
Una parte urbana nata senza progetto sugli antichi tracciati rurali che, con una sezione stradale di sei, sette metri, risalivano dall’Arenella verso l’alto, e che già allora, ma ancora oggi, sopportavano decine di migliaia di automobili al giorno ed il peso infrastrutturale di edifici organizzati in “parchi residenziali” di dieci e più piani fuori terra. Una pazzia. Nella concitata urbanizzazione, spesso abusiva, non fu neanche pensato alcun collegamento perpendicolare ed il relitto, il frammento di viadotto, di cui ci stiamo occupando, rappresenta lo scellerato tentativo, peraltro in irrimediabile ritardo, di collegare maldestramente due delle quattro strade rurali che risalivano la collina, disegnando di fatto tre macro-isolati ingestibili sia per una circolazione veicolare sia, ancora di più, per una circolazione pedonale o ciclabile alternativa all’uso dell’automobile. La pedonalità fu così di fatto cancellata dalla storia del Vomero Alto, un quartiere di alcune decine di migliaia di abitanti.

Oggi siamo in un altro millennio, in un’era totalmente diversa e il tema posto dal Premio è del tutto opposto.Siamo nell’era del contrasto ai cambiamenti climatici e al riscaldamento della Terra, nei giorni di Greta, del ritorno alla ciclo-pedonalità. Negli anni delle nuove visioni: della nascita della Città Metropolitana e del Programma OBC – Ossigeno Bene Comune. Del necessario ritorno ad una visione ecologica delle città e della vita. Giancarlo Caniggia sosteneva che la storia delle città procede per salti. A decenni di immobilità si contrappongono periodi di furiosa espansione e decenni successivi in cui le Comunità urbane lavorano per riarmonizzare gli esiti della concitata, disordinata crescita.

Il tema posto va in questa direzione. Ed ecco allora emergere la necessità, ormai irrimandabile, non più di far passare un viadotto tra le case per unire “a tutti i costi” strade carrabili scollegate, ma di riconnettere ciclo-pedonalmente i pochi polmoni verdi rimasti casualmente, miracolosamente, intatti dopo la furia cementificatrice di “mani inconsapevoli sulla città”. Un rapido sguardo con lo straordinario strumento di Google-map ci permette di leggere subito il tema posto e ci incita in ogni occasione progettuale, alla ricerca della migliore ricomposizione della Rete ecologica urbana ripristinando e celebrando ogni singolo filamento ancora recuperabile, ancora possibile per l’interconnessione del grande polo verde del Bosco di Capodimonte e del Vallone San Rocco con quello delle aree agricole e boschive del Parco delle Colline di Napoli e dei Camaldoli, fino all’area flegrea a ovest e all’area vesuviana ad est.

Una rete ecologica per i cittadini metropolitani, percorsa, ove possibile, da una rete di strade ciclo-pedonali che riconnetta ossessivamente, paesaggisticamente ed ambientalmente, le varie parti sconnesse. Che costruisca una irrinunciabile opportunità per il movimento della flora e della fauna urbana, oggi sempre più ristretta in Riserve minime che precedono immediatamente l’estinzione.

Il Vomero Alto e gli isolati compresi tra via Iannelli e via Bernardo Cavallino, con gli assi di via san Giacomo dei Capri e di via Pietro Castellino, costituiscono quindi oggi una delle grandi scommesse per il ripensamento in chiave ecologica della Città Metropolitana di Napoli.

Così, il tema, posto dalle Associazioni Napoli Creativa e Premio GreenCare, attraverso l’ottava edizione del Premio convivialità urbana, diventa centrale, sia se letto in chiave strategica, sia in chiave simbolica e sperimentale. Il Progetto urbano di ripensamento delle sorti del viadotto mancato e dell’isolatone verde di terzo paesaggio a San Giacomo dei Capri, si esalta in tutto il suo fascino se inteso alla maniera dell’esperienza straordinaria dell’”altro moderno” Joze Plecnic per Lubiana, laddove per l’architetto comunale sloveno ogni progetto, anche minimo, anche solo funzionale a dei piccoli bisogni, fu declinato coerentemente a un’unica Visione di ampia portata, interpretando la costellazione di piccoli, medi e grandi progetti come un mosaico unitario. Fu il modo davvero originale ed efficace con cui la città di Lubiana costruì la sua risposta urbana nel processo di metamorfosi da piccola città di provincia a nuova, sfavillante, capitale della neonata Slovenia.

E allora ecco l’orrido frammento di uno scellerato viadotto trasformarsi in una grande opportunità a cui la comunità architettonica non deve sottrarsi, sia che i progettisti decidano di reinterpretare il “surreale manufatto” come una sorta di ponte verde sul verde riconquistato, o in alternativa lo propongano per altre funzioni come, ad esempio, edificio serra per la ripiantumazione nel tempo dell’area; o, perché no? come sede per funzioni partecipative così carenti un un’area centrale ed allo stesso tempo periferica, che ha bisogno della sua Comunità per reinterpretarsi. Oppure, optando per la sua demolizione, per la sua condanna senza appello all’oblio, riutilizzandone eventualmente i rifiuti non pericolosi, per ri-sagomare una realtà urbana tutta da reinterpretare o invece annullando, cassando un periodo di pazzia della città “ricominciando da tre”, ovvero interpretando l’area come terzo paesaggio eroico da salvare integralmente insieme alla biodiversità che in questi anni ha resistito a tutto. Riconoscendole, così, il diritto alla permanenza, il diritto alla vittoria. Ma, a mio parere, ogni soluzione proposta non dovrebbe abdicare a un dovere irrinunciabile: contribuire alla ricostruzione della rete ecologica dell’area a Nord della città e a fare in vario modo la propria parte nella guerra al riscaldamento climatico, alla cattura della CO2 ed alla produzione di ossigeno e di verde per tutta la città metropolitana realizzando cosi, davvero: Un ponte verde verso il Futuro.

*architetto, Direzione Generale per il Governo del Territorio, Regione Campania

Fotografare tra la malinconia del reale e la speranza del possibile 

Mario Ferrara, fotografo d’architettura, ricercatore DIARC, Federico II, Napoli

Riportiamo sul Ponte l’odorosa macchia mediterranea

Maurizio Fraissinet *

La progettazione di un giardino urbano, nel secondo decennio del XXI, secolo dovrà fornire risposte alle nuove, pressanti, esigenze ambientali. Si dovrà partire, quindi, dal concetto che il verde urbano non ha solo una funzione di arredo ma anche, e soprattutto, di mitigazione ambientale e climatica, nonché richiamo ai ritmi e alla biodiversità del pianeta. Progettare un’area verde in una grande città costiera mediterranea, quale è Napoli, non può prescindere dall’inquadramento biogeografico e territoriale.

Pertanto andranno utilizzate esclusivamente piante della flora mediterranea. L’utilizzo della flora mediterranea comporta una serie di vantaggi.

Le piante si sono evolute adattandosi al clima mediterraneo di tipo sub tropicale che caratterizza la città partenopea, hanno raggiunto condizioni di equilibrio evolutivo con i parassiti, sono riconoscibili ed utilizzabili dalla fauna locale (dagli invertebrati ai vertebrati). Le attività di manutenzione per i motivi suddetti sono facilitate.

Sarebbe auspicabile, qualora tecnicamente possibile, collocare le piante in funzione di quelle che sono le successioni degli orizzonti vegetazionali nel contesto mediterraneo. L’utilizzo di piante della flora mediterranea potrebbe anche favorire la presenza di animali sempre più graditi ai cittadini quali le farfalle e gli uccelli.

Per le prime è necessario quindi utilizzare piante con fioriture attraenti e per i secondi piante che fruttifichino con frutti zuccherini in tarda estate e autunno: corbezzolo, mirto, lentisco, fico, olivastro, ecc. Altrettanto importante sarebbe tenere conto di altri due aspetti: il fenomeno dell’alternanza delle stagioni e gli odori del Mediterraneo.

Chi vive in città non riesce a percepire il fenomeno dell’alternanza delle stagioni perché non ha dinanzi agli occhi le dinamiche vegetazionali stagionali. L’utilizzo quindi anche di piante caducifoglie, oltre alle sempreverdi, potrebbe far notare il fenomeno. Le piante della macchia mediterranea sono particolarmente “odorose”.

Si va dall’odore di resina del Pino d’Aleppo al profumo intenso dell’Erica arborea. Odori la cui memoria si è andata perdendo in città e che è il caso invece di recuperare. Un’altra funzione che è chiamato a svolgere oggi il verde urbano è quella didattico – educativa. Ancora una volta l’utilizzo di piante autoctone consente di portare conoscenza su quella che è la straordinaria biodiversità della natura nel bacino del Mediterraneo. Una straordinaria ricchezza che sfugge ai più soprattutto per ignoranza, e l’ignoranza naturalistica e ambientale è uno dei guasti culturali che non possiamo più permetterci.

*presidente Associazione Studi Ornitologi Italia Meridionale, ASOIM

Il Ponte che si fa Porta del Parco

Domenico Fulgione*

Il moncone abbandonato di ponte presso San Giacomo dei Capri è collocato nella porzione settentrionale della città di Napoli, circondato da urbano compatto, ma anche da una cinta di frammenti residuali di colline ed orti, boschi e vigneti. Questi ultimi compongono il Parco delle Colline di Napoli che costituisce una corona intorno al sito abbandonato. La collocazione spaziale suggerisce una intrigante destinazione, tesa a recuperare tale sito in una veste di “Porta-Ponte” all’area protetta collinare. Il ponte nella sua eccezione lessicale è un collegamento, nel caso specifico tra l’urbano compatto e l’area collinare circostante, ma anche Porta del Parco delle Colline di Napoli.

Le specie di alto fusto dellambiente mediterraneo, originarie dellarea interessata, farebbero da preludio a quanto custodito nell’area protetta, e ricordo dei boschi collinari che popolavano questo sito prima della urbanizzazione. Essenze tipiche dell’orticoltura tradizionale, vigneti, uliveti e frutteti racconterebbero la componente agricola storica.

Questa articolata composizione vegetazionale aprirebbe al vicino Parco collegando il tessuto urbano all’ambiente naturale che è memoria della passata città di Napoli. Infatti, la destinazione come “Porta-Ponte” potrebbe arricchirsi di un valore didattico ed educativo, ospitando installazioni informative sulle comunità vegetazionali e faunistiche che compongono l’ecosistema, la componente agricola, la storia delle diverse cultivar e delle pratiche umane che ne consentivano lo sfruttamento. Una diversità culturale direttamente collegata alla diversità biologica.

L’area del Ponte rappresenterebbe una sorta di bacheca esplicativa che informa e prepara il visitatore al valore in biodiversità e storia dellarea collinare di Napoli.

Una Porta e un Ponte che raccontino e che colleghino, che orientino la corretta fruizione del vicino Parco. Una Porta-Ponte che indirizzi su come il Parco può essere percorso, seguendo la storia che i siti, le piante e le strutture residuali sono capaci di raccontare.

*Docente in Evoluzione, Dipartimento di Biologia, Università degli Studi di Napoli Federico I

Area interessata dal parco delle colline di Napoli e Ponte S. Giacomo dei Capri

In figura: verde, area interessata dal parco delle Colline di Napoli, il punto rosso, la posizione del Ponte di San Giacomo dei Capri.

 

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Un rudere moderno da riconnettere alla cura ed alla vita degli abitanti

Anna Giannetti*

La cosa più difficile in un caso come questo dell’incompiuto viadotto di San Giacomo dei Capri è resistere alle associazioni immediate che genera il rudere di una austera campata di cemento armato rimasta al centro di un vivace quartiere cittadino. Come ogni rudere che si rispetti si presenta invaso dalla vegetazione spontanea e da rifiuti di ogni tipo e, come accade spesso in città, da autovetture parcheggiate in box e garage, ma si sa le tecniche costruttive e progettuali moderne non generano rovine, men che mai vestigia, solo degrado. In fondo il nostro viadotto non è altro che un rifiuto ingombrante, difficile da smaltire.

Un ponte che non collega nulla viene spontaneo considerarlo un vuoto urbano e quindi da recuperare attraverso lo strumento più semplice e sperimentato, il giardino o il parco urbano. Negli anni per il viadotto di San Giacomo sono state fatte alcune proposte in tal senso, senza prestare troppa attenzione al destino di tanti interventi simili realizzati in giro per la città: la pietosa copertura arborea, i giochi per bambini e le panchine, abbandonati a loro stessi, sono destinati a trasformarsi in altri vuoti con erbacce, cartacce e quanto altro di inutile e nocivo il quartiere provvederà a gettarvi dentro.

I giardini hanno bisogno di giardinieri, è quasi ovvio, ma si dimentica sempre di prenderli in considerazione. Esclusi quelli comunali che a volte si materializzano tre per un rastrello, due per una pompa, anche di più per un tosaerba, salvo poi scomparire per anni – non si dimentichi che un eventuale operatore ecologico di passaggio non raccoglierebbe per contratto neppure una busta o una cartaccia dal prato o dalla siepe-  non rimane che intervenire a livello progettuale con piante che necessitino una manutenzione semplice – senza cadere nell’equivoco di immaginare che possano sopravvivere senza alcuna manutenzione- e quindi puntare su gruppi di volontari a cui affidarli. Oltre a chi si prenda cura di loro, i giardini, infatti, hanno bisogno di un senso, di un ruolo da svolgere rispetto alla comunità che li circonda e tale tipo di associazionismo rimane sempre uno degli strumenti migliori per darlo loro.

Posso immaginare quanto sia difficile resistere alla suggestione di vedere il nostro viadotto come un giardino pensile, complice l’altezza, o per lo stesso motivo come una versione in scala ridotta della Promenade Plantéeparigina. La Coulée Verte è stata inaugurata nel 1993 ed era, appunto, una passeggiata sulla vecchia linea ferroviaria dismessa, vale a dire aveva una partenza e un arrivo, zone di sosta e persino una nuova piazza. Niente di tutto ciò è ipotizzabile su un troncone che non collega nulla, né si può pensare di ricollegarlo ad altri ruderi sopraelevati come nella più famosa High Line realizzata nel 2009 a New York, perché non ve ne sono.

Quindi meglio considerarlo per quello che è: un elemento atipico, un rudere moderno, un rifiuto troppo ingombrante, ma in ogni caso unico, affidandolo ad un’associazione che gli dia un senso con corsi di giardinaggio, di yoga o di qualunque altra cosa, oltre, ovviamente, un punto inizio ed una fine, magari con uno chalet o con un qualunque altro punto di sosta e di ristoro che si voglia. Progettare un giardino pubblico al giorno d’oggi significa per prima cosa immaginare chi se ne prenderà cura e che rapporto stabilirà con il quartiere e i suoi abitanti, proprio come facevano a Parigi più di un secolo fa il barone Haussmann e il suo braccio destro Alphand.

*docente di Storia del giardino e del paesaggio, Dipartimento di Architettura e Disegno Industriale, Università della Campania Luigi Vanvitelli

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Partire dai desideri dei cittadini per progettare il futuro del ponte

Dario Minervini e Anna Maria Zaccaria *

Obiettivo principale del progetto è quello di sottrarre al degrado e all’incuria uno spazio pubblico, per restituirlo al quartiere con funzioni nuove e diversificate, che ne consentano una utenza inclusiva.

A tal fine si suggerisce una fase “preparatoria” al progetto, mirata a:

–  indagare e recuperare la memoria dei luoghi, suggerendo una ricognizione sulle aspettative e sui ricordi degli abitanti che circondano il ponte. Ciò al fine: a) di cogliere eventuali elementi identitari legati al ponte/al rione, che andrebbero recuperati se positivi o “tradotti” se negativi; b) di indagare anche l’immaginario degli abitanti rispetto agli impatti che il ponte avrebbe dovuto avere sul quartiere

– indagare gli usi informali del ponte e, più in generale, le relazioni che connettono/non connettono ad oggi i residenti, i frequentatori, il ponte, la vegetazione circostante e gli edifici;

– indagare le “visioni future” del ponte da parte degli abitanti circostanti: cosa vorrebbero che diventasse? Quali funzioni suggeriscono? Come immaginano la “nuova struttura”?

L’indagine (opportunamente circoscritta in termini spazio-temporali) potrebbe essere condotta: rivolgendosi ad un campione di convenienza degli abitanti (per es. alcuni condomìni); utilizzando tecniche di rilevazione dei dati anche on line;  prendendo come riferimento le scuole (medie e superiori) che insistono sul territorio. Con gli alunni delle scuole elementari si potrebbe utilizzare il metodo ( à la Linch) del disegno proiettivo.  Le possibilità indicate non si escludono a vicenda.

Scopo dell’indagine è:

  1. a) agire una modalità partecipativa fin dall’inizio, che parta dalla presa in considerazione dei “bisogni/ desiderata” degli utenti più direttamente interessati dell’intervento di recupero;
  2. b) avviare un percorso di comunicazione/informazione con gli abitanti della zona interessata dal ponte rispetto a ciò che si sta mettendo in cantiere;
  3. c) individuare eventuali attori individuali/collettivi disponibili a “collaborare” all’ iniziativa (per competenze, per investimenti successivi, con risorse materiali/immateriali)

Per quanto riguarda gli obiettivi e le funzioni del progetto, ci troviamo sostanzialmente d’accordo con quelli formulati dal prof. Vargas. In particolare, riguardo ai microscenari metteremmo in evidenza alcune aree d’intervento:

  • Spazi verdeggianti [prato, boschetto, campo dei fiori, orto]
    • Piccoli orti potrebbero avere una funzione didattica, ma anche essere “adottati” da condomìni o gruppi spontanei di cittadini e dare vita a mini-mercatini settimanali del Km 0.
    • Mercatino settimanale potrebbe comunque essere pensato c/o Confagricoltori (come accade in altri posti della città).
  • Punti di socialità nei quali sostare, riunirsi, muoversi, osservare [si potrebbero creare punti “belvedere” sulla città]
    • Dotare gli spazi di panchine, magari in prossimità di piante che facciano ombra in estate.
    • Individuare alcuni spazi per l’installazione di chioschetti (da affidare a cooperative che agiscono con finalità sociali), il cui uso potrebbe anche garantire la “cura” degli spazi, piante comprese
    • Punti di veduta sui campetti da tennis presenti sotto il ponte, se ancora agibili. Più in generale si suggerisce di allargare la progettazione e gli interventi anche all’area sottostante il ponte al fine di contrastare forme di degrado degli spazi nascosti e per promuovere una rigenerazione urbana complessiva.
    • Attrezzare un’area giochi per bambini e uno spazio dedicato allo sgambamento degli animali domestici.

 

  • Progettare uno spazio energetico autosufficiente in conformità con la normativa nZEB
    • Installare impianti lampioni ad alimentazione da energia rinnovabile che garantiscano illuminazione anche notturna.

 

L’idea generale è quella di inscrivere il ponte in un arcipelago di spazi poli-funzionali, circoscritti e non invasivi, collegati tra loro, che possano contribuire ad attivare una visione integrata e inclusiva del quartiere.

Nel progetto andrebbero previste le modalità di gestione/manutenzione degli spazi, per garantirne la sostenibilità economica, sociale e ambientale. Inoltre andrebbe progettato un piano di “messa in sicurezza” attiva, attraverso dispositivi tecnologici (telecamere), con il coinvolgimento degli abitanti nel ruolo di “sentinelle”, con un controllo “discreto” delle forze dell’ordine.

*Dipartimento di Scienze Sociali, Università degli Studi di Napoli Federico II

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L’architettura al servizio del verde

Cosimo Schinaia*

Dobbiamo coltivare il nostro orto[1].

Voltaire, Candido o dell’ottimismo, 1759.

   Noi siamo circondati dall’ambiente, respiriamo l’ambiente, dipendiamo dall’ambiente, ma al tempo stesso lo teniamo dentro di noi, nelle nostre menti, nei nostri sogni, nelle nostre angosce, luoghi psichici in cui fattori umani e non umani entrano in relazione tra loro in modi molteplici. Gli animali, le piante, i minerali, l’acqua, le montagne, non sono soltanto una natura da sfruttare o da proteggere, ma elementi di una rete di relazioni, di cui noi e gli altri esseri facciamo parte eticamente allo stesso titolo e con gli stessi diritti.

Il rispetto dell’ambiente, inteso sia in termini etici che estetici, è stato messo in rilievo con stile sobrio e chiaro anche da Papa Francesco nell’enciclica Laudato Sì, che ribadisce il diritto di tutti gli uomini alla bellezza e critica l’idea di una crescita illimitata, riscontrando la smisurata e disordinata crescita di molte città che sono divenute invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento originato dalle emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i problemi di trasporto e l’inquinamento visivo e acustico. Ci sono quartieri che, sebbene siano stati costruiti di recente, sono congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti.

È necessario proporre una nuova idea di città in cui si cambi la prospettiva con cui si è guardato al verde, mettendo l’architettura al servizio del verde e non il verde al servizio del costruito, intendendo cioè il verde come elemento sostanziale e non come qualcosa di accessorio, di superfluo. E’ proprio partendo dalle piante – non ingorde di risorse come gli animali, ma energeticamente autonome – che dovremmo immaginare nuove soluzioni per la crescita ecologica ed energeticamente sostenibile delle città.

L’architetto Vito Cappiello esorta i paesaggisti a superare l’idea di abbellimento che finora ha accompagnato il progetto di paesaggio, dei bei paesaggi, per sottolinearne gli aspetti di potenziale strumento di trasformazione dei cosiddetti buchi neri della città contemporanea. In quei luoghi rifiutati, abbandonati, scartati, si rende necessario operare uno spostamento dello sguardo che trasformi il rifiuto in risorsa (energetica, materiale, estetica, ecc.) e il territorio in paesaggio.

Non si tratta più di aspetti accessori e risarcitori inerenti il prezzo da pagare al progresso, ma di aspetti centrali, parte integrante, costitutiva del progresso stesso, la necessaria sperimentazione di nuove forme di convivenza con la natura in termini non onnipotenti di possesso e conquista, senza cui il progresso non può darsi in termini di sostenibilità e di non distruttività.

Il mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extradomestici, le suppellettili, l’arredo, giocano un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, soprattutto nell’infanzia.

All’interno dell’individuo, a livello conscio o inconscio, vi è un senso di colleganza con l’ambiente non umano, di intima affettività tra i processi della vita umana e quelli ambientali, che deve essere riconosciuto e rispettato per il proprio benessere psicologico, per alleviare la sua solitudine esistenziale nell’universo.

Karl Popper ci esorta a considerare il mondo come un luogo meraviglioso che noi, come giardinieri, possiamo ancora migliorare e coltivare, usando la modestia di un giardiniere esperto il quale sa che molti suoi tentativi falliranno.

In una conversazione del 1950, Jung dice che ciascuno dovrebbe possedere il suo piccolo pezzo di terra, dove far tornare in vita i propri istinti. La cura della terra ha, invero, una grande importanza psicologica, che nient’altro può sostituire.

Bisogna pensare ai giardini come fonti di nutrimento emotivo e all’attività di giardinaggio, non solo come possibilità di provare un maggior senso di libertà e di maggiore prontezza sensoriale, non solo come uno svago per la mente, ma come un’area simbolica di sopravvivenza emotiva, in cui il sé possa ristorarsi e trovare riposo.

Commentando il Candide di Voltaire, Vittorio Lingiardi dice che, se ognuno coltiva il suo giardino, avremo un “nostro giardino”, un giardino dell’umanità, delle cui singole piante possono goderne tutti.

Passando del tempo nella natura selvaggia, o solo nel nostro giardino, ci riconnettiamo all’unicità dell’esistenza.

Sue Stuart-Smith sottolinea i benefici della natura e del giardinaggio per la nostra salute mentale in relazione alle ricerche nelle neuroscienze e alle testimonianze di pazienti, il cui stato psicofisico è migliorato grazie al giardinaggio terapeutico. Nell’era della virtualità e delle fake news, il giardino ci riconduce alla realtà.

Dobbiamo sapere ascoltare il grido d’aiuto sempre più forte che proviene dalla natura e, quindi dare ascolto oggi alle esigenze delle persone, delle specie e degli ecosistemi, anche quelli più lontani, da cui la nostra esistenza dipende, e contemporaneamente tendere l’orecchio alle esigenze delle generazioni future e alla preservazione dei beni comuni, come il verde, l’atmosfera e gli oceani, la cui esistenza, domani, dipenderà dai nostri stili di vita.

*psichiatra e psicanalista, Società Psicoanalitica Italiana

[1]Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire” (Un hombre que cultiva un jardín, como quería Voltaire) è l’inizio della poesia “I giusti” di Jorge L. Borges.

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Il ponte che chiede di essere compiuto

Davide Vargas*

Tra via Jannelli e via San Giacomo dei Capri c’è un moncone di ponte che si solleva sui piloni come un catafalco e termina in un groviglio di fogliame e rovi. Il Rione Alto ha una storia di speculazione che ebbe il suo culmine negli anni Sessanta quando superato il vincolo di inedificabilità intorno all’ospedale Pascale furono realizzati dodicimila alloggi. La costruzione del ponte fu avviata negli anni Ottanta, ma venne presto interrotta e non se ne conoscono fino in fondo le cause, resta in piedi il precario testamento di una stagione di politica scellerata. Il territorio della Campania è disseminato degli sprechi di quegli anni come relitti in un paesaggio dell’abbandono. Nelle campagne tra i boschetti di pioppi sottili e ondeggianti, le viti maritate e i campi di granoturco, ci si imbatte spesso in pezzi di viadotti che finiscono nel nulla o edifici perlopiù pubblici apparentemente finiti e mai andati in funzione o scheletri invece mai ultimati. Più sorprendente trovarne nella città. È il ponte che avrebbe dovuto collegare via San Giacomo dei Capri con via Jannelli, era una buona idea per ridurre il traffico ma la sua corsa finisce nel vuoto. Ennesima occasione perduta di una terra che ad ogni ipotesi di svolta ha visto abortire la possibile emancipazione. E se ne sente in colpa, tanto da rimuovere dai propri intenti la riconversione in opere funzionanti e collettive. Il luogo è inaccessibile, incombe come uno dei troppi “eco mostri”, eppure nascono suggestioni dalla visione malinconica di una rovina di tipo post industriale. E anche dall’ecosistema verdeggiante cresciuto naturalmente negli anni dell’incuria. Avrei voluto usare la parola “bellezza” ma conosco il pericolo pornografico di intravederne l’esistenza nel degrado, eppure so che resiste latente e in attesa. Viene subito in mente la celebre District Line progettata dagli studi Corner Field Operations e Diller Scofidio + Renfro che innesta tra i grattacieli di West Chelsea a New York un parco lineare lungo un chilometro e mezzo sul sito di una ferrovia soprelevata nata per il trasporto merci e poi andata in disuso. Grande differenza di scala e geografia, ma anche punti di contatto nelle ragioni di un’idea. Ci sono stato qualche anno fa, una giornata di sole pallido e una passeggiata incuneata tra i palazzi fino alla svolta che offre la visione completa delle acque dell’Hudson. Una guida diceva che per i nativi era “il fiume che fluisce nelle due direzioni” per le correnti che vanno verso l’oceano e verso al terra. Piattaforme in cemento ricoperte di vegetazione e panchine in legno che si sollevano dal suolo, parco, agricoltura e architettura si susseguono, la gente cammina in equilibrio sulle rotaie dismesse. Un luogo dalle due facce, tranquillo e solitario nelle ore di punta, pieno di gente quando i newyorchesi dopo il lavoro vi si riversano, quasi la replica pedonale degli ingorghi stradali. La soprelevata finisce di botto a pochi passi dal Whitney Museum of American Art progettato da Renzo Piano e realizzato nel 2015, otto piani di volumi asimmetrici rivestiti di pannelli metallici e superfici vetrate, le bandiere di Jasper Johns fissate alle pareti delle sale espositive mentre fuori sventolano ai pennoni sul fiume. Tutt’altra storia a Napoli, soltanto centocinquanta metri di asfalto per dodici, tredici di larghezza della carreggiata. Una sosta più che un percorso. Mi ritrovo a pensare che non è necessario abbattere nulla ma è meglio riscrivere progetto su progetto un palinsesto dove non si perdono le tracce. E così mi ritrovo davanti a visioni di un futuro possibile. Il quartiere dotato di uno spazio pubblico, spazi verdeggianti, prato, boschetto, campo dei fiori, orto; un verde amico, che non ti fa starnutire, riconoscibile come il mirto e il ginepro delle nostre falesie. Che sappia offrire la scoperta di punti di socialità dove sostare, riunirsi, muoversi, osservare, occhi puntati sulla città e il mare là in fondo, sulla High Line una grande cornice panoramica sul bordo inquadra la città e dalle strade di sotto si guarda ad essa come a un grande cartellone vivente. Non c’è paragone con Napoli, almeno questo. Luoghi destinati a spettacolo, performance artistiche, sport. Uno spazio “teatrale” che continuerebbe a rappresentare la propria origine ibrida tra reperto di degrado e nuova destinazione. Uno spazio accessibile, sicuro e visibile a distanza come i campanili nelle piazze o gli alberi delle barche nei porti. Tecnologicamente avanzato, autosufficiente, in rete. Uno spazio dove ritrovare architettura e natura senza che nessuna abdichi all’altro. Moderno, nel senso della misura e dell’assenza di colpi ad effetto. Un progetto non si può raccontare, bisognerebbe farlo.

*architetto, autore della rubrica Narrazioni di Repubblica Napoli

 

Mario Ferrara, fotografo d’architettura, ricercatore DIARC, Federico II, Napoli