Stamane sveglia all’alba, sembrerebbe quasi un’anonima, fredda giornata di fine inverno, invece non è così. Apro gli occhi ancora annebbiati dal sopore notturno ma immediatamente ricordo che devo fare presto, senza perdere troppo tempo.

Consumo in fretta la frugale colazione che ho pensato di anticipare in tavola la sera prima al fine di ottimizzare i tempi. Una doccia veloce, abiti più seriosi di quelli abituali, cappotto e una sciarpa a contrasto annodata intorno al collo. Mi metto in auto, il viaggio in autostrada verso Salerno è quasi inconsapevole, immerso come sono nei miei pensieri.

Mi ridesto solo quando finalmente riesco ad imboccare la litoranea, il cui primo tratto, chiuso per lavori, mi riporta alla mente che rischio di arrivare in ritardo. Superato l’imprevisto accelero, dinanzi a me un rettilineo che sembra non finire mai, unica ferita grigia tra due infiniti: quello azzurro del mare alla mia destra e l’altro bruno-rossiccio delle zolle rivoltate dei campi. Quando finalmente arrivo a Paestum, l’aia della antica masseria nei pressi di porta Giustizia è già quasi completamente piena di auto. Scendo e mi dirigo verso il trasparente gazebo con vista mozzafiato sul parco archeologico: tutto è pronto per le audizioni ministeriali per il conferimento del titolo di Capitale della cultura italiana, tra i cui finalisti c’è l’Unione dei Comuni Paestum Alto Cilento con Capaccio Paestum, appunto, quale Ente capofila.

Pochi minuti di trepidante attesa e il collegamento da remoto con Roma è stabilito: ai membri della Commissione ministeriale compare l’immagine dei relatori del progetto, alle cui spalle, aldilà di una parete in vetro, troneggia uno sfondo d’eccezione: la peristasi del più antico dei due santuari dedicati alla dea Hera.

Il moderatore prende la parola, enfatizzando anzitutto le ragioni della scelta della location, situata idealmente tra il mare e i monti Alburni, a simboleggiare appunto l’unione dei comuni del Cilento, proteso tra le aree costiere, più densamente popolate e quelle interne, fatte di piccoli centri, non meno affascinanti in quanto a storia e paesaggio.

Il dossier predisposto è stato concepito come l’architettura di un tempio greco in cui l’archeologia, l’arte contemporanea, i giovani, la lettura, le arti performative, i borghi e il patrimonio immateriale costituiscono le sette colonne che sorreggono il timpano della cultura locale.

Il tutto viene esposto nei tempi prescritti dalla commissione, tant’è che viene sottolineato con compiacimento da Roma il rispetto rigoroso della tempistica. Purtroppo, giunti al momento delle delucidazioni, il collegamento salta, diventa altalenante e i giovani imprenditori, chiamati a illustrare il loro progetto occupazionale, sono costretti, non senza delusione, a rimandare il proprio intervento al pomeriggio, in attesa del ripristino del segnale.

Intanto è quasi ora di pranzo, esco in compagnia degli amici della Fondazione Alario, che ha proposto per la candidatura un percorso tematico storico-naturalistico del territorio. Attraversiamo insieme nuovamente l’aia della masseria, al cui centro campeggia un vecchio gelso dalla frondosa chioma, per dirigerci sull’altro versante della strada. C’è un bel sole ma una leggera brezza fredda ci ricorda che l’inverno non è ancora alle spalle; mentre discorriamo sull’articolazione degli interventi, alla destra del marciapiedi sentiamo il lento fluttuare delle acque del torrente Capodifiume che scorre parallelamente alla strada prima di incunearsi, tra i folti canneti ancora verdi, in una profonda ansa, alla volta del mare.

D’altronde il territorio di acque ne ha in abbondanza, tant’è che il toponimo Capaccio si fa tradizionalmente discendere dalla contaminazione della voce “Caput aquae” ad indicare appunto un luogo ricco di sorgenti.

Riattraversiamo la strada in corrispondenza dell’incrocio dei semafori e intraprendiamo la strada con andamento nord/sud che taglia in due il parco archeologico, realizzata in epoca borbonica, quando fu nominata via delle Calabrie.

Gli alberi sono spogli delle abituali ombrose chiome dei mesi estivi e la luce, seppur copiosa, non è accecante. Riesco a distinguere con più nitidezza gli smerigliati contorni del tempio di Nettuno che si staglia all’orizzonte nella sua atarassica ieraticità, ma ciò che avverto di diverso è il sapore dell’aria. È scomparso quell’odore acre e pungente di terra e di vegetazione spontanea che si eleva nell’aria soprattutto di sera, al termine delle afose giornate estive. I prati che si infiltrano tra le rovine degli antichi edifici sono verdi ora e puntellati di infinite margherite dalle corolle bianche non ancora sbocciate, tanto che sembra quasi che un velo sottile di neve abbia ricoperto tutto. D’improvviso vedo saltellare un volatile bianco dal collo sinuoso e il becco giallo. È un airone cosiddetto guardabuoi poiché si avvista spesso nelle vicinanze di buoi e bufali dei cui parassiti si nutre. In un repentino flashback rivedo una delle celebri litografie del Piranesi, raffigurante una mandria di bufali che pascola seraficamente tra le rovine di questi stessi templi, ricoperti della vegetazione che li infestava negli ultimi decenni del ‘700, quando la zona era ancora acquitrinosa.

In fondo, al di là di un elegante cancello, al termine di un lungo viale, si distinguono le superfici grigie dei logori intonaci della villa Bellelli-Salati, contornata di svariati edifici decadenti. Tra questi ne noto due, diruti, dal caratteristico tetto a forma poligonale culminante in una lanterna. Erano bufalare, tipici edifici rurali dal caratteristico camino centrale, usati in passato per la trasformazione del latte di bufala.

Consumiamo un veloce pranzo, seduti ai tavolini di uno dei pochi ristoranti ancora aperti e ritorniamo all’orario concordato per la ripresa delle audizioni. Stavolta l’audio è stato ripristinato e i lavori non subiscono ulteriori interruzioni. A fine collegamento, durante il brindisi, impossibile non percepire  il  grande senso di soddisfazione che aleggia tra i partecipanti, componenti degli enti e delle associazioni che hanno contribuito con tanto entusiasmo alla realizzazione – speriamo –  di un sogno comune; tra gli altri,  brillano gli occhi del Sindaco di Paestum, Francesco Alfieri, della Responsabile dei progetti speciali dell’Unione Comuni del Cilento, Paola Mangone,  del direttore tecnico-scientifico del dossier, Giovanni Solimine.